Il costume femminile di Rima (fonte Sportelli Linguistici Walser Valsesia (Vercelli) – Valle Ossola (Verbano Cusio Ossola) – info@walser.it – www.walser.it
Nel corso della storia l’abito femminile di Rima è cambiato numerose volte. Non esistono testimonianze scritte o iconografiche per ricostruirne l’originale aspetto. Solo a partire dal XVII secolo, al comparire numerosi Ex Voto, è possibile studiare gli usi della comunità e del vestire femminile.
Dall’analisi delle testimonianze si evince che con passare dei secoli l’abito si trasforma divenendo più valsesiano pur mantenendo forti caratteristiche proprie. I contatti con il resto della valle (quasi nulli in precedenza) si fanno sempre più intensi ed influenzano anche il vestire.
Dalla fine dell’ottocento il costume di Rima prenderà la sua forma definitiva ed il colore nero, che era stato predominante per un lungo periodo di quel secolo, lascerà spazio ai colori più vivaci. Oggi, dei due abiti usati un tempo, quello da lavoro e quello della festa, sopravvive solo il secondo. Si è persa traccia dei copricapo e delle tradizionali acconciature. Delle varianti cromatiche del costume che stavano ad indicare lo stato civile della donna, oggi rimane solo il blu, colore riservato alle donne nubili.
Il costume è composto da:
- la CAMISA in lingua walser “HAMD”
È di colore bianco con inserti di puncetto bianco attorno al collo e ai polsini. La chiusura del colletto è laterale e si allaccia con dei piccoli bottoni rotondi fatti di filo con asole in rilievo (tipo a gancio). L’inserto del puncetto lo troviamo anche a metà manica, tra gomito e spalla. Le camicie più antiche erano di lino, sempre di colore bianco e avevano ricamate le iniziali di casato con la data su una spalla. - il BUSARD in lingua walser “HOTTO”
È un corsetto a forma di gilet in tessuto pregiato a volte anche di velluto, di colori decisi, con scollatura quadrata, chiuso davanti in verticale all’altezza del seno. La chiusura, fatta con piccoli gancini è sormontata da una pettorina rettangolare, detta PEZZA (in lingua walzer BLATZ). I due pezzi di solito hanno le stesse decorazioni. E’ indossato sopra la camicia. Il busard è detto così perché comprime il seno e a volte era imbottito per camuffare certe mancanze, ecco perché era chiamato bugiardo. - il PATUN o PATELA in lingua walser PATA
È una gonna ampia con spalline. Si indossa sopra la camicia e al busard. Liscia davanti, nella parte posteriore riccamente pieghettata, di colore blu intenso, lunga fino a metà gamba, terminante con un bordo rosso vivo di circa 10 centimetri di altezza. A tre quarti, verso il basso, si fa una piega per tutta la larghezza della gonna. Questa piega ha la funzione di allungare o accorciare quando si tramanda il costume. La gonna invernale è detta patun, quella estiva patela. - STROPA in lingua walser SCEGNO
È un nastro ricamato che gira intorno al busto della donna ed è ancora davanti con un fiocco, viene posizionata sopra la pezza sula lato sinistro del petto. Un tempo questi nastri erano fatti a mano. - SCUSAL in lingua walser FOLDER
È un grembiulino corto prevalentemente di colore blu scuro, si mette sopra la gonna, copre la parte anteriore dal petto fino ala cintura. E’ legato dietro in vita con due nastri di 3-4 centimetri d’altezza. Oggi si vedono anche grembiulini di seta di colori differenti legati con nastri multicolori. - CAMISTAL in lingua walser HAMD o HOLO
È una giacchetta di tessuto di lana nera, corta ed aderente . Nella parte posteriore ha due spacchetti laterali. Si indossa sopra i costume, quando fa freddo o durante le cerimonie importanti. Questa giacchetta è sciancrata per dare più slancio alla figura. Le maniche sono strette e finiscono con dei polsini applicati di velluto nero di circa 15 centimetri, ricamati con ornamenti molto elaborati, detti “MUSTRE“. - SCOFONI
Tipica calzatura valsesiana fatta a forma di pantofola, in tessuto di panno con suola realizzata da diversi strati di tessuti cuciti tra loro. Oggi nelle cerimonie ufficiali si usano gli scofoni di colore nero, rosso o blu. Di solito con gli scofoni si mettono delle calze di cotone di colore bianco.
Le parti del costume sono tratte dal libro “Storia di Rima” pubblicato dalla Fondazione Enrico Monti e dal capitolo “Il costume tradizionale di Rima” di Hanzi Axerio Cilies con la collaborazione di Giulia Axerio Piazza.
Giunti alla fine di una strada ricca di curve e ripide salite, veniamo accolti dalla splendida chiesetta della Madonna delle Grazie, con la sua bella facciata attribuita ad Antonio Orgiazzi il Vecchio.
Entrati nel santuario, una cancellata in ferro battuto ci separa dal grande altare di legno, da collocarsi nel 1600, interamente dorato e dipinto che circonda un frammento di affresco di Giovanni De Campo risalente al 1481.
Al termine della strada, oltrepassata la piazza della chiesa ed imboccata una stretta via in salita, ci si trova nel nucleo storico del paese; qui quattro case in architettura Walser, attentamente restaurate, testimoniano le origine del villaggio.
Addentrandosi per le vie del paese si possono ammirare eleganti case che comprovano il periodo di ricchezza e benessere iniziato a fine ‘800 quando, grazie al “segreto del marmo artificiale”, i maestri rimesi si arricchirono lavorando presso le corti di tutta Europa.
Ancora oggi il “segreto” del marmo artificiale viene trasmesso a chi volesse apprendere questa antica tecnica: nel laboratorio dell’Associazione del Marmo Artificiale si tengono corsi che insegnano questa arte. La chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista custodisce altari e balaustre realizzate con tale tecnica.
Alle spalle del paese, immersa nella pineta, troviamo la gipsoteca che custodisce statue in gesso di uno dei più importanti scultori dell’ottocento italiano: Pietro Della Vedova.
A testimonianza della grande abilità nella lavorazione della pietra delle popolazioni locali, le baite degli alpeggi che circondano il paese ancora oggi offrono sicuro riparo ai pastori che, in estate, salgono con le loro mandrie sfruttando i verdi pascoli e producendo burro e formaggi acquistabili direttamente in loco.
Tracce di antichi passaggi dell’uomo sono individuabili presso l’Alpe Vallè di Sotto dove, su un grosso sasso, si trovano incise coppelle ed impronte a forma di piede. Proseguendo poi per il sentiero, nei pressi dell’Alpe Vallè di Sopra ci si imbatte in incredibili reperti megalitici chiamati “Antiche Dimore”.
La leggenda più illustre, legata monte al Tagliaferro, è quella del “rospo portentoso“.Tratto da “In Valsesia” di Carlo Gallo, ed. Corradini, ristampa del 1984.
“… non sarà fuor di luogo ch’io loro esponga quanto di favoloso si va dicendo su questo monte, che forse, più d’ogni altro dell’intera Valsesia, è preso di mira per affibbiargli favole e leggende.
Ai due terzi d’altezza, il versante del monte Tagliaferro che guarda il Corno di Moud, ha una specie di strada che pare scolpita a furia di picconi o scalpelli nell’orrida parete, il che, secondo taluni, diede il nome al monte.
E’ questo uno scherzo di natura, perché quella strada non presenta scopo di sorta, avendo ai due capi orridi precipizi; ma la leggenda s’impadronì di essa, e la dice ora costruita dai Saraceni, ed ora dai Romani.
Altri poi vi dice (e tra questi è il Fassola, che nel secolo XVI scrisse una storia della Valsesia tutt’ora inedita) che per la val Piccola o val Sermenza, tornasse Gneo Silvio, proconsole romano, dalla Gallia dove aveva soggiogate certe popolazioni, e che memoria di tal fatto si avesse in una lapide scolpita nel monte Tagliaferro. Simile lapide non esistè giammai.
L’immaginazione popolare pensò bene di avvolgere questo monte nel meraviglioso. Secondo essa esiste in una parete scoscesa della montagna una caverna, scavata a forza di braccia, entro cui i Romani riponevano i tesori coi quali mantenevano gli eserciti in Gallia. Caduto in isfacelo l’impero romano, rimasero nella caverna molte ricchezze, le quali eccitarorno fortissimo desiderio di possederle in alcuni abitanti di Rima e paesi vicini. V’andarono, si caricarono di oggetti preziosi, e fecero per uscire dalla caverna, quand’eccoti presentarsi loro un rospo, il quale gonfiatosi rapidamente, venne tanto grosso da impedire loro l’uscita. I meschinelli gettarono via il fatto bottino, e allora il rospo si sgonfiò lasciando libero il passo.
Ma non solo gli audaci avevano eccitato l’ira del rospo, giacché per colpa loro erasi suscitato eziandio un furibondo temporale, che rovinò i pochi coltivi ed i prati della valle. D’allora in poi gli abitanti di Rima incolpavano dei temporali quei coraggiosi che andavano alla caverna, e suonando campana a stormo, s’armavano per costringerli a tornare indietro.
I vecchi della Val Piccola credono ancora oggigiorno al tesoro ed al “rospo portentoso”.
Presso il ponte delle Quare saltuariamente stazionano porcellini rossi.
In certe notti i fantasmi danno spettacolo nei pascoli nei pressi di San Nicolao.
Rintanato al Pian Torbetto c’è Comparmagne, omino delle caverne che praticamente non si vede mai.
Famoso il Ghilomagne della Valmontasca: a Rima ci si ricorda ancora di un bambino in fasce, sparito una sera dalla culla in una casera dell’omonima alpe mentre i genitori erano nella stalla a mungere; cercato a lungo nella notte e alla fine ritrovato dentro un cespuglio sulla cascata del Maranc.
Ci sono orsi che hanno casa (Berenciocca) sul sentiero per Lanciole; c’è Ghilomagne, folletto dei burroni, che si diverte ad attirare nei precipizi i bambini
C’è Tacchie, folletto non cattivo ma dispettoso: si diverte a far sparire la roba (quando non si trova qualcosa è stato lui), si diverte a legare tra loro i catenacci delle mucche nelle stalle e, per tenerlo lontano, bisogna infilare una falce, una meula arrugginita, tra le pietre del muro sopra la porta della stalla.
Valiciu Vibien, la streghina del Valicio, di cui si dà per certa l’esistenza ma non se ne conoscono le gesta. Cattiva di certo è invece Hecza, strega attiva dalle parti della Chiaffera: chissà che non sia lei, ogni inverno, a dare la spinta decisiva alla rovinosa omonima valanga.